PESCARA. Prima «un banale litigio tra vicini» per una busta di rifiuti e un materasso da buttare lasciati fuori posto; poi la rissa, una botta in testa con una spranga di ferro e cinque coltellate, una mortale sferrata al cuore, così violenta da recidere l’aorta. Dopo aver ucciso il bengalese Afjal Hossan Khokan, 44 anni, padre di 5 figli e dipendente di una paninoteca in centro, il marocchino arrestato, Brahim Dahbi, 63enne, avrebbe minacciato una testimone «nell’intento di indurla a tacere»: «Toni e modi intimidatori», così dice l’accusa, per evitare che la donna raccontasse ai carabinieri quello che aveva visto la mattina del 4 gennaio scorso quando, nel cortile del palazzo di via Gran Sasso 17, una discussione è finita nel sangue. È quanto emerge dalle indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo, guidati dal tenente Giuseppe Sicuro.
Secondo gli investigatori, coordinati dal pm Andrea Papalia, tutti gli indizi raccolti finora dimostrerebbero che l’assassino di Afjal è proprio il marocchino: un coltello, ancora bagnato, è stato trovato su un mobile della casa dell’arrestato e, sia sul coltello che sul lavandino della cucina, sono state scoperte «tracce ematiche latenti» grazie al controllo con il luminol. Si tratta di un coltello da cucina appuntito e lungo circa 15 centimetri, con manico di legno. E c’era sangue anche sui vestiti indossati dall’indagato e su un paio di scarpe trovate nella casa: dopo la lite mortale e prima dell’arrivo dei carabinieri, Dahbi ha fatto in tempo a cambiarsi le scarpe e ad indossare una felpa e un giubbino sulla camicia celeste macchiata di sangue. E poi tracce di sangue anche sulle sue mani, oltre a una ferita da taglio nel palmo della mano destra. E ancora i racconti dei testimoni: la donna minacciata e un altro bengalese hanno fornito «puntuale descrizione dell’aggressione e del tipo di arma impropria utilizzata per colpire mortalmente la vittima». L’autopsia, eseguita dal medico legale Ildo Polidoro, ha scoperto anche una ferita sulla testa del bengalese: prima delle coltellate, sarebbe stato colpito, probabilmente. con una spranga di ferro.
Durante l’interrogatorio, il marocchino, difeso dall’avvocato Rossella Serra, ha raccontato la sua verità: il bengalese sarebbe stato colpito dalle coltellate sferrate da un altro bengalese, fendenti diretti al marocchino che si sarebbe fatto scudo con Afjal. Quindi, il delitto, a detta del marocchino, sarebbe stato un incidente. Ma questa ricostruzione, osserva il giudice Francesco Marino, «è apparsa inverosimile giacché il bengalese fu attinto da diverse coltellate, non da una soltanto come sarebbe stato verosimile nel caso di colpo accidentale. Inoltre, tale versione non dà alcuna giustificazione della presenza del sangue sul coltello da cucina rinvenuto nell’abitazione dell’indagato». A breve sarà il risultato degli esami dei carabinieri del Ris di Roma a dire se quel sangue è del bengalese.
Nel frattempo, dice il giudice, il marocchino deve restare in carcere: «Vi è il concreto pericolo che commetta altri gravi delitti della stessa specie». E poi perché potrebbe «esercitare pressioni sulle persone in grado di riferire circostanze utili ai fini delle indagini, trattandosi per la maggior parte di soggetti di nazionalità straniera abitanti nel medesimo stabile e civico ove viveva la vittima e ove vi è anche la dimora dell’indagato»: «Concreta e attuale», afferma il giudice, sarebbe la possibilità di inquinamento probatorio.
Il giudice parla di «gravi e allarmanti modalità dei fatti», sottolinea che «le violenze sono state perpetrate con arma da taglio nei confronti di una vittima disarmata» e sostiene che il marocchino avrebbe «incontrollabile inclinazione alla violenza».
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